Di lungi n'eravamo ancora un poco,
ma non si ch'io non discernessi in parte
ch'orrevol gente possedea quel loco.
ma non si ch'io non discernessi in parte
ch'orrevol gente possedea quel loco.
Dante - La Divina Commedia
Ed elli a me: <<L'angoscia de le genti
che son qua giu, nel viso mi dipigne
quella pieta che tu per tema senti.
Andiam, che la via lunga ne sospigne>>.
Cosi si mise e cosi mi fe intrare
nel primo cerchio che l'abisso cigne.
Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l'aura etterna facevan tremare;
cio avvenia di duol sanza martiri,
ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
d'infanti e di femmine e di viri.
Lo buon maestro a me: <<Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo' che sappi, innanzi che piu andi,
ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,
non basta, perche non ebber battesmo,
ch'e porta de la fede che tu credi;
e s'e' furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio>>.
Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,
pero che gente di molto valore
conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.
<<Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore>>,
comincia' io per voler esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
<<uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato? >>.
E quei che 'ntese il mio parlar coverto,
rispuose: <<Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.
Trasseci l'ombra del primo parente,
d'Abel suo figlio e quella di Noe,
di Moise legista e ubidente;
Abraam patriarca e David re,
Israel con lo padre e co' suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fe,
e altri molti, e feceli beati.
E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati>>.
Non lasciavam l'andar perch' ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.
Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand' io vidi un foco
ch'emisperio di tenebre vincia.
Di lungi n'eravamo ancora un poco,
ma non si ch'io non discernessi in parte
ch'orrevol gente possedea quel loco.
<<O tu ch'onori scienzia e arte,
questi chi son c'hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte? >>.
E quelli a me: <<L'onrata nominanza
che di lor suona su ne la tua vita,
grazia acquista in ciel che si li avanza>>.
Intanto voce fu per me udita:
<<Onorate l'altissimo poeta;
l'ombra sua torna, ch'era dipartita>>.
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand' ombre a noi venire:
sembianz' avevan ne trista ne lieta.
Lo buon maestro comincio a dire:
<<Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre si come sire:
quelli e Omero poeta sovrano;
l'altro e Orazio satiro che vene;
Ovidio e 'l terzo, e l'ultimo Lucano.
Pero che ciascun meco si convene
nel nome che sono la voce sola,
fannomi onore, e di cio fanno bene>>.
Cosi vid' i' adunar la bella scola
di quel segnor de l'altissimo canto
che sovra li altri com' aquila vola.
Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e 'l mio maestro sorrise di tanto;
e piu d'onore ancora assai mi fenno,
ch'e' si mi fecer de la loro schiera,
si ch'io fui sesto tra cotanto senno.
Cosi andammo infino a la lumera,
parlando cose che 'l tacere e bello,
si com' era 'l parlar cola dov' era.
Venimmo al pie d'un nobile castello,
sette volte cerchiato d'alte mura,
difeso intorno d'un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.
Genti v'eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorita ne' lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci cosi da l'un de' canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
si che veder si potien tutti quanti.
Cola diritto, sovra 'l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m'essalto.