Canto XXXIII
La bocca sollevo dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.
La bocca sollevo dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.
Dante - La Divina Commedia
Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: <<El converra che tu ti nomi,
o che capel qui su non ti rimagna>>.
Ond' elli a me: <<Perche tu mi dischiomi,
ne ti diro ch'io sia, ne mosterrolti,
se mille fiate in sul capo mi tomi>>.
Io avea gia i capelli in mano avvolti,
e tratti glien' avea piu d'una ciocca,
latrando lui con li occhi in giu raccolti,
quando un altro grido: <<Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca? >>.
<<Omai>>, diss' io, <<non vo' che piu favelle,
malvagio traditor; ch'a la tua onta
io portero di te vere novelle>>.
<<Va via>>, rispuose, <<e cio che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch'ebbe or cosi la lingua pronta.
El piange qui l'argento de' Franceschi:
"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera
la dove i peccatori stanno freschi".
Se fossi domandato "Altri chi v'era? ",
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui sego Fiorenza la gorgiera.
Gianni de' Soldanier credo che sia
piu la con Ganellone e Tebaldello,
ch'apri Faenza quando si dormia>>.
Noi eravam partiti gia da ello,
ch'io vidi due ghiacciati in una buca,
si che l'un capo a l'altro era cappello;
e come 'l pan per fame si manduca,
cosi 'l sovran li denti a l'altro pose
la 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tideo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l'altre cose.
<<O tu che mostri per si bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi 'l perche>>, diss' io, <<per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con ch'io parlo non si secca>>.
Inferno ?
Canto XXXIII
La bocca sollevo dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.
Poi comincio: <<Tu vuo' ch'io rinovelli
disperato dolor che 'l cor mi preme
gia pur pensando, pria ch'io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se' ne per che modo
venuto se' qua giu; ma fiorentino
mi sembri veramente quand' io t'odo.
Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,
e questi e l'arcivescovo Ruggieri:
or ti diro perche i son tal vicino.
Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non e mestieri;
pero quel che non puoi avere inteso,
cioe come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha 'l titol de la fame,
e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,
m'avea mostrato per lo suo forame
piu lune gia, quand' io feci 'l mal sonno
che del futuro mi squarcio 'l velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ' lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studiose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s'avea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ' figli, e con l'agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli
ch'eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se' crudel, se tu gia non ti duoli
pensando cio che 'l mio cor s'annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Gia eran desti, e l'ora s'appressava
che 'l cibo ne solea essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti' chiavar l'uscio di sotto
a l'orribile torre; ond' io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.
Io non piangea, si dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi si, padre! che hai? ".